Pubblicato il: 07 luglio 2018

Archiviato il: 11 agosto 2018

Opere di Misericordia & Confraternita: consolare gli afflitti

 

 

Se desideriamo qualificare al meglio le nostre azioni non possiamo che chiederci subito: quando chi amiamo è in difficoltà, sappiamo metterci umanamente accanto o prevale l’istinto di fuggire, magari fornendo scuse meschine per scongiurare il senso di imbarazzo? Riusciamo a metterci in ascolto del dolore dell’altro per comprenderlo e accoglierlo, prima ancora di cercare immediatamente una soluzione ai suoi mali? Nella nostra vita di fede in quale momento abbiamo sperimentato e fatto sperimentare la vicinanza di Dio? Adesso chi abbiamo accanto nei momenti difficili? Possiamo concretamente contare su qualcuno? Che effetto ci fa saperlo nostro consolatore?

 

Accade spesso per l’uomo di percepire nella sua interiorità di essere amato solo nei momenti peggiori dell’esistenza, nelle difficoltà più tristi da accettare. Si sperimenta così con estrema facilità che stare accanto a qualcuno è pur sempre piacevole, ma amare davvero solo chi ha il coraggio di restare accanto nonostante tutto, nonostante i momenti drammatici, nonostante la tenebra del momento non è semplice.

 

Molteplici sono le lacerazioni che generano afflizione e amarezza, però essere consolatori non vuol dire assecondarle né trovarvi miracolosi rimedi. Significa soprattutto prestare attenzione, offrire la cura di uno sguardo affettuosamente amico, infondere il conforto di una sincera vicinanza, a volte anche solo silenziosa ma non per questo inefficace. Di solito, la consolazione più efficace è quella che arriva da una persona che ha vissuto già sulla propria pelle lo stesso tipo di dolore e pertanto solo conoscendolo a fondo riesce a farsene carico.

 

Anche il nostro Dio da parte sua non fa mancare ,pur nel silenzio dei nostri attimi tumultuosi di vita, il suo consolarci: «Sarò con te» (Is 51,12-16) e «Non temere» (Is 43,1-7).

 

L’etimo della parola latina per “confortare” che è “consolari” ci aiuta alla perfetta comprensione dell’opera di misericordia spirituale che stiamo analizzando, perché sta a significare “rimanere con chi è solo”, ovvero restare accanto, farsi prossimo, affinché sappia sopportare l’esperienza di chi vuole consolare. Anche la parola greca “parakalein” ha molteplici significati: “chiamare accanto, incoraggiare, consolare, avere parole di conforto, assistere”.

 

Resta sempre l’interrogativo in cosa consista la “consolazione”. Possiamo affermare che questa è semplicemente una pratica di umanità che l’uomo, in quanto tale, conosce, auspica, chiede, mette in atto di fronte alle variegate situazioni di vita, morte, sofferenza fisica e morale, vecchiaia, solitudine e abbandono. Consolare è spesso concretizzare una presenza fisica e vera che sia capace di ascolto non svilendo la disgrazia dell’afflitto con parole follemente banalizzanti o falsamente rassicuranti, con parole illusoriamente spirituali, con discorsi teologici, che inevitabilmente non raggiungono la tragedia che la persona sta vivendo, anzi si fanno realmente distanza.

 

La consolazione, così come il dolore e il lutto, ha bisogno dei suoi tempi. Affrettare dialoghi squalificanti e parole inutili, spesso è segno di angoscia e di paura di fronte all’afflizione dell’afflitto. Difficile invece è porsi in ascolto della sofferenza, lasciare che sia il suo silenzio, il suo animo, a suggerire gesti, tempi, atteggiamenti, distanze per poter essergli realmente di consolazione. Occorre spogliarci dalle forme di potere che ci possono abitare, rinunciare alle risposte salvifiche, all’illusione di possedere “tecniche” di consolazione.

 

Nell’azione consolatoria, è vitalizzante il guardarsi dalla presunzione di saper e poter consolare, dal delirio di onnipotenza di pensare che il benessere dell’altro dipenda esclusivamente da noi. La consolazione non deve diventare un intervento anestetico. Si deve entrare in qualche modo nella situazione di sofferenza dell’altro o, meglio, essere accanto all’altro nella sua sofferenza e mostrargli empatia comunicandogli il nostro "sentirlo" che avviene attraverso un equilibrato e sapiente rapporto. Consolare è un lavoro, una fatica che esige prima di tutto un intervento su di sé.

 

Solo chi ha vissuto un lutto e ha saputo abitarne il dolore, assumere il vuoto, lasciarsi plasmare dalla mancanza, può umanizzare quell’incontro con la sua discrezione e con l’intelligenza di ciò che sta avvenendo nell’animo di chi è nel lutto.

 

Una realtà sconfortante invece, è quando spesso non vi è chi può consolare. Nel testo biblico ritorna frequente questo lamento: «Ho atteso consolatori, ma non ne ho trovati» (Sal 69,21; Lam 1,9-16) o l’amara constatazione: «Ecco il pianto degli oppressi che non hanno chi li consoli; da parte dei loro oppressori sta la violenza, mentre per essi non c’è chi li consoli» (Qo 4,1) Se la fede ci aiuta a sopportare il lutto, nello stesso tempo non ci preserva da esso. Chi non vuole vivere il lutto, abusa della fede per evitare la propria povertà e il proprio dolore.